Da adolescente tutti i miei coetanei e amici avevano questa sorta di ossessione per l’Inghilterra e, di conseguenza, per le band inglesi.
Erano gli anni in cui questi nostri (praticamente) coetanei di Sheffield facevano uscire un disco dalla famosa copertina col tizio che fuma, dal titolo Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not. Noi tutti ovviamente eravamo in fissa con questa freschezza di chitarrone acide e un cantato che si avvicinava allo spoken word ma non aveva la durezza del punk, perché ci sentivamo troppo posh per quella cosa. Una giusta via di mezzo.
Negli stessi anni liceali mi capitava molto spesso di andare alle feste e in queste occasioni diventavo (molto volentieri) il jukebox vivente con la chitarra sempre in mano e, tra le canzoni più richieste, c’era sempre Ziggy Stardust.
Fin qui nulla di strano, se non che io non avevo mai ascoltato questa canzone in vita mia: la suonavo e basta, perché avevo trovato gli accordi su internet (caliamo un velo pietoso su Ultimate Guitar). Ci sono voluti almeno un paio d’anni prima che la mia amica Ginevra mi facesse davvero sentire un po’ di roba di Sir David Bowie.
Sarà che io venivo da un’altra parte, sarà che ero un po’ più snob di adesso, sarà che per me Miles Davis stava diventando l’unico artista mai apparto sulla faccia della terra, in ogni caso Bowie mi fece veramente cagare. E non sembrava nemmeno simile a quello che avevo suonato e cantato mille volte a quelle feste.
Non ci ho mai più pensato; ho semplicemente scelto che a me Bowie non piaceva e sono andato avanti con la mia vita.
Facciamo un passo in avanti alla settimana scorsa, Aprile 2025. Sempre nel celebre pub in cui lavoro mi torna in mente questa cosa e decido di riascoltare quelle canzoni, includendole però nel mio ormai rodato metodo di ascolto, seguendo la discografia dell’artista.
Aprile 2025 è il mese in cui io, Antonio Falanga, mi rendo conto di dovere delle scuse a D. Bowie.
Ho riconnesso tutto: le collaborazioni con Brian Eno e Robert Fripp; Blackstar con Donny McCaslin e Mark Guiliana. Il genio musicale stimato da tutti e che a me non piaceva. L’artista preferito del tuo artista preferito.
Quindi mi sono chiesto il motivo profondo del perché non mi fosse piaciuto, il perché della mia reazione adolescenziale smodata e ingiustificata.
La risposta che mi dò oggi è che non basta sentire per capire. C’è una sorta di remissività negativa che ci pervade quando sentiamo di aver capito qualcosa in più degli altri e disdegnamo tutto. Non è solo umiltà, è la propensione all’accoglienza, è il vincolo greco di ospitalità. E’ anche riuscire ad inquadrare un prodotto nel suo tempo e nella sua bolla socio-culturale. unica ed irripetibile.
Io non amavo Bowie perché fondamentalmente non volevo amarlo. Non volevo corrompere la mia ‘purezza’ d’ascolto con un’arte che non accettava i miei canoni estetici e formali. Ma i miei canoni erano dettati solo da incosapevolezza e da barriere mentali. Dal ragionamento a compartimenti stagni e dall’ignoranza.
Sì perché ascoltare è il contrario di ignorare, in un certo senso.
Significa prestare attenzione e invertire i propri paradigmi.
Mi dispiace Signor Bowie, cercherò di andare ancora più in fondo alla Sua faccenda e, nel frattempo, consiglio qualche disco che mi ricorda quei tempi inconsapevoli e naive.
David Bowie, Hunky Dory (1971)
Crosby, Stills, Nash & Young, Deja Vu (1970)
Joni Mitchell, Shadows And Light (1980)
The Black Keys, El Camino (2011)
Godspeed You! Black Emperor, Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven (2000)
Qui ce n’è veramente per tutti i gusti.